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sabato 13 novembre 2010

Intervista a Filippo Rossi, direttore di 'Caffeina' e di 'FareFuturoWebMagazine'



Intervista: Federico Zuliani
Operatore: Michele Sganzerla
Location: Bastia Umbra (PG)

giovedì 5 agosto 2010

Futuro e libertà: siamo garantisti, ma governo valuti opportunità politica

Ecco il testo e il video dell'intervento fatto nell'aula della Camera dei Deputati da Benedetto Della Vedova, alla sua prima uscita come Vice Capogruppo Vicario del neonato gruppo 'Futuro e Libertà. Per l'Italia', ossia i cosiddetti 'finiani', sulla mozione di sfiducia contro il sottosegretario alla Giustizia/senatore PdL Giacomo Caliendo.




Onorevole Presidente, signori del Governo, colleghi,
il nuovo gruppo parlamentare “Futuro e Libertà per l’Italia” è formato da deputati che avrebbero voluto restare nel Popolo della Libertà e lì partecipare ad un vitale confronto di idee e di personalità che, guardando all’Europa, costruisse il futuro di un grande partito liberale e moderato nell’interesse del paese.
Ci è stato detto in modo categorico che ciò non era ammissibile; che le nostre proposte e le nostre ragioni, i nostri contenuti e le forme che sceglievamo per esprimerli erano incompatibili con il partito e con la sua leadership. Il “nuovo” partito del centro-destra, a quanto pare, non avrebbe potuto tollerare quella dialettica politica, aspra e competitiva, che caratterizza in tutto l’Occidente avanzato la vita politica interna dei grandi partiti di centrodestra.

Non abbiamo capito, ma ci siamo adeguati. Ne abbiamo preso atto, ma non ci siamo rassegnati. Ora la maggioranza parlamentare, alla Camera come al Senato, è composta da tre gruppi, compresi quelli di Futuro e Libertà per l’Italia.

Siamo in maggioranza e sosterremo lealmente l’esecutivo, lavorando per migliorare e accelerare l’attuazione del programma di governo. Per il resto, fuori dal perimetro del programma, andremo ad un confronto aperto, senza pregiudizi ed ostilità. Nulla di meno, nulla di più.

Veniamo al voto di oggi.
Noi siamo garantisti senza se e senza ma. Lo siamo per le migliaia di persone che stanno in carcere, in condizioni incivili, ancora in attesa di un processo. Lo siamo per quegli immigrati che vengono respinti come irregolari prima che si verifichi se abbiano o meno i requisiti per ottenere l’asilo politico; lo siamo per quelle decine di migliaia di imputati e vittime dei reati, che sono condannati dalle inefficienze del sistema giudiziario ad attendere per anni, spesso inutilmente, che la giustizia faccia il suo corso. Lo siamo per tutti, lo siamo anche per i politici, che di fronte ad un’indagine o ad un’imputazione, non sono né più, né meno innocenti dei comuni cittadini.

Il perimetro della responsabilità penale non coincide però con quello della responsabilità politica. Nessun politico ha il dovere di dimettersi per il solo fatto di essere indagato. Ma nessun politico può essere difeso, a prescindere da qualunque altra considerazione, solo perché è indagato. L’avviso di garanzia non è una condanna preventiva, ma la presunzione di innocenza non assicura l’immunità politica. Siamo contro gli opposti estremismi di chi ritiene che un avviso di garanzia debba fare scattare la tagliola delle dimissioni e magari della decadenza dalle cariche pubbliche e di chi, al contrario, ritiene che per valutare le responsabilità di un politico indagato occorra attendere la pronuncia definitiva dell’autorità giudiziaria. Si tratta di due errori uguali e contrari, in cui la politica italiana è già caduta in passato e da cui deve guardarsi per il futuro.

Se oggi la cosiddetta “questione morale” torna in primo piano, non dobbiamo confondere la causa con l’effetto. Sono i fatti a creare allarme, non l’allarme a creare i fatti. La crisi economica sta mettendo alla prova la società italiana: la storia ci insegna che è in questi momenti – quando la disoccupazione cresce, tante imprese sono in difficoltà e le famiglie sono costrette a ripensare i propri progetti di vita – che si diffonde la sfiducia per la politica e per le istituzioni e che novelli agitatori di piazza hanno gioco facile. Ed è in queste situazioni che la politica ha maggiormente il dovere di dare un’immagine di trasparenza, di correttezza, di legalità nell’esercizio del potere pubblico, di meritocrazia nella selezione della classe dirigente e nella valutazione delle sue responsabilità. E’ questo un importante capitale sociale, fondamentale perché una nazione possa ritrovare la strada della crescita e del benessere.

Senza moralismi, dobbiamo dire forte e chiaro che la questione dell’etica pubblica e dell’etica politica ci riguarda tutti, perché su questo tutti insieme verremo giudicati.

Negli ultimi mesi le inchieste giudiziarie, e non solo queste, hanno fatto emergere condotte, di cui è interamente da accertare il rilievo penale, ma di cui sarebbe da incoscienti sottovalutare la portata politica. E’ inutile, oltre che dannoso, addebitare la responsabilità ad un complotto politico-mediatico. Altra cosa, che invece va fatta a voce alta, è chiedere che i media raccontino le indagini senza emettere sentenze sommarie in assenza di contraddittorio.

In questo clima, tornano a soffiare i venti di un giustizialismo aggressivo e di uno pseudo-garantismo peloso. Non tutto è uguale, non tutto è ugualmente censurabile, non tutto è ugualmente difendibile. Ogni caso fa storia a sé. Per stare alle vicende che hanno coinvolto membri dell’esecutivo, bisogna dire chiaramente che il caso Caliendo è diverso dal caso Brancher, che è diverso dal caso Cosentino, che è diverso dal caso Scajola.

Il collega Claudio Scajola si è dimesso da Ministro senza aver neppure ricevuto un avviso di garanzia. Ha sbagliato? No, ha fatto bene. Era opportuno che lo facesse e questo gli va riconosciuto.

Oggi si chiedono le dimissioni del sottosegretario Caliendo. Non voteremo a favore della mozione dell’opposizione. Come dicevamo, non tutte le vicende sono uguali e questa è molto diversa da quelle che l’hanno preceduta. Quanto emerge ed è dato conoscere – al di là, lo ripeto, del rilievo penale che non spetterebbe a noi giudicare – consente di contestare al senatore Caliendo una grave imprudenza e un’eccessiva confidenza con personaggi che non meritavano mè ascolto né credito, non la responsabilità di essere venuto gravemente meno ai suoi doveri.

Non sussistono i presupposti per chiedere le sue dimissioni. In questo concordo con il Ministro Alfano.
Ma, d’altra parte, e lo diciamo sinceramente, non può essere giudicato irrilevante che proprio il sottosegretario al Ministero della Giustizia sia sotto inchiesta per avere tentato di influire su procedimenti che interessavano importanti uffici giudiziari. Tocca al presidente del Consiglio, al Ministro della Giustizia ma innanzitutto al sottosegretario Caliendo valutare serenamente se una sospensione delle sue deleghe, fino al chiarimento definitivo della sua posizione, non sarebbe la cosa migliore da fare.
Per queste ragioni, il gruppo di Futuro e Libertà si asterrà.

Da ultimo, signor Presidente, ma non per ultimo: è molto positivo che su questa posizione equilibrata, su di un terreno dove abitualmente prevale un feroce scontro pregiudiziale, vi sia una convergenza tra gruppi di maggioranza e di opposizione, uniti dalla consapevolezza che serva un sussulto di responsabilità istituzionale in una fase tormentata della Repubblica.

Non è un nuovo partito. Non è il terzo polo. Noi restiamo senza esitazioni nella maggioranza i cui numeri oggi non cambiano, altri restano all’opposizione. Ma è una novità importante che al di là della azione del Governo, su temi che riguardano le istituzioni e il senso di comune appartenenza ad esse, non vi siano più steccati invalicabili. Questo è nell’interesse della Repubblica italiana.
Concludo, signor Presidente, ribadendo il voto di astensione del gruppo “Futuro e libertà per l’Italia”.


CREDITS: Libertiamo

domenica 1 agosto 2010

Ecco a voi il berluscomunismo. Stalin non avrebbe saputo fare meglio

Il liberalismo rivoluzionario berlusconiano trovò la sua bibbia nel Libro nero del Comunismo – ricordate, l’antologia degli orrori pubblicata da Mondadori all’indomani dell’apertura degli archivi sovietici, quella miniera di gemme anti-totalitarie che il Silvio redentore estrasse a beneficio di un popolo democraticamente spurio, non ancora pienamente consapevole – in virtù dell’equivocata ‘diversità’ del comunismo made in Italy – dell’abominio di una cultura omologante, geneticamente votata alla repressione di quella naturale vocazione dell’individuo che è la libera espressione di sé.


Quell’ispirato secchione di Berlusconi tenne a lungo il volume sul comodino. Lo studiò con doviziosa dedizione, riuscendo a farne – con la sua ineguagliata capacità di ridurre a lapalissiana evidenza la complessità dell’universo filosofico novecentesco – la carta dei comandamenti per i missionari della libertà del nuovo millennio italiota. Ah, in quanti ci siamo lasciati ispirare dal verbo! In quanti abbiamo ceduto al trasporto di quella verve libertaria che con le sue suggestioni etiche (l’individuo inizio e fine), i suoi precetti comportamentali (il potenziale di ciascuno reso libero di esprimersi), la qualificante promozione della ‘saggezza’ (incarnata da personalità come Antonio Martino), rese la sino ad allora repressa civiltà liberale un’ambizione possibile persino per il nostro paese a trazione (e tradizione) leggendariamente socialistico-democristiana.

In quel suo “i comunisti mangiano i bambini” molti oppositori del neo-messianesimo berlusconiano videro allora un’iperbolica falsità. Ma non lo era. Era una metafora eretta a monito atemporale, storicamente irriducibile, dell’abbrutimento perverso cui irrimediabilmente conduce l’ideologia autocratica – qualunque ne sia la Weltanschauung ispiratrice.

Fu talmente (con)vincente la crociata libertaria che attorno al Mosè-Berlusconi si creò presto un esercito ampio e trasversale. Non importavano le esperienze pregresse, le provenienze culturali, le hýbris politiche centrifugate dall’evolvere della storia. Contava solo conseguire l’obiettivo – la liberazione della società italiana dal parassitismo statale, dal pluto-burocratismo inconcludente – e traghettare il paese verso un radioso futuro di prospera modernità. Contava restituire agli individui il gusto di sentirsi protagonisti, responsabili delle proprie fortune, primiattori di un’esperienza che si fa tanto più ‘sociale’ quanto più riesce a nutrirsi di motivi ed azioni individuali.

Si arrivò persino a superare distinguo e differenze di sensibilità in nome di un sempre più palese obiettivo liberatorio. Si arrivò, in nome di quell’obiettivo, a costituire un partito unico della Libertà.

Obiettivo che, tuttavia, più veniva perseguito più appariva distante. E le tasse che non si abbassano. E la burocrazia che continua ad annichilire. E gli spazi di libertà che invece di ampliarsi finiscono asfissiati in un indistinto valoriale precipitosamente definito ‘cristiano’. E lo spuntare del ‘noi’ – gli italiani – in sempre più intransigente contrapposizione con il ‘loro’ – gli stranieri. E la vita e la morte sempre meno dominio sacramente privato e sempre più non negoziabile sacramento, conferito ab domino, per roccelliana intercessione. E la moralità del fare? E il fare morale?

E la discordia sempre meno conciliata, non più riducibile a concordia ma inasprita, sfidata, negata, repressa. E i nemici che si fanno sempre più minacciosi, insidiosi. E sempre più insidiosamente camaleontici al punto da palesarsi ovunque: dentro, fuori, sopra, sotto. Ma quali comunisti! Il vero pericolo adesso sono gli ex amici. I liberali della prima ora. I cofondatori della seconda. I partigiani del ben fare. La stampa, gli organi costituzionali. Tutto si fa minaccia là dove in nome della responsabilità liberale si pongono al leader obiezioni di merito (e riflessioni sul metodo).

Ed è così che l’avanzata si arresta, e la lotta di liberazione si fa guerra di trincea. Ed il quartier generale presidio assediato dietro il quale cecchini-falchi – il Giornale con i suoi scoop, i colonnelli acquisiti dall’esercito sussidiario novelli generali di Stato Maggiore, i sacerdoti della sovranità popolare scomunicatori della sovranità del pensiero individuale… – colpiscono ed affondano il veliero disancorato per approdare al mondo nuovo della libertà.

È qui che riemerge dalla polvere la primigenia bibbia del fu architetto dell’Italia 2.
Nel Libro nero del Comunismo si ritrovano all’uopo indicazioni preziose. Su come, ad esempio, ricondurre alla sanità dell’approvazione gioiosa gli insani reprobi della contestazione. Ma suggerimenti utili vengono forniti, nel testo sacro del rivoluzionario liberale, anche rispetto a come spegnere quelle scintille che illuminando gli angoli oscuri della casa comune minacciano di mostrarne lo zozzo nascosto.
La grande lezione che da quella monumentale opera di storiografia dittatoriale si ricava, infatti, è che il dissenso va represso e il dissenziente, nei limiti del possibile, rieducato o altrimenti annientato.

“E il divorzio si compie in un paradossale rovesciamento di ruoli – scrive Pierluigi Battista sul Corriere (supremo organo del Male) nel giorno della ri-presa del Palazzo (d’Estate). Berlusconi diventa il sacerdote della supremazia del Partito, il custode della sua Disciplina che espelle, radia, scomunica, butta fuori dal recinto sacro. Fini il dissidente, l’uomo dell’apparato che si ribella all’apparato e prende su di sé l’anatema: fuori linea, indisciplinato. Sabotatore.”

La storia corre e ri-corre, diceva quel tale. E allora inutile girarci intorno, compagni: che berluscomunismo – finalmente – sia!

Simona Bonfante - 37 anni, siciliana, giornalista e blogger, si è fatta le ossa di analista politico nei circoli neolaburisti durante gli anni di Tony Blair. Dopo un periodo in Francia alla scoperta della rupture sarkozienne, è recentemente rientrata a Milano dove, oltre a scrivere per varie testate online, si occupa anche di comunicazione politica, per lo più come ghostwriter.

venerdì 30 luglio 2010